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Google, lo sappiamo tutti, sta cambiando la sua privacy policy. E come sempre succede questa è l’occasione per risollevare temi da “Grande Fratello” con argomenti la cui pregnanza è spesso inversamente proporzionale alla vicinanza alla rete di chi li affronta.

A parlarne questa volta è Gianni Riotta su La Stampa di oggi, che mescolando privacy e diritto all’oblio in salsa anti-terrorismo – da persona vicina alla rete qual è – dice cose molto ragionevoli ed in larga parte condivisibili. Se non fosse che, a guardare le cose da dentro e non da vicino, ci si rende conto che a volte si rischia di non centrare appieno il problema.

Confondere privacy e diritto all’oblio è un rischio. Soprattutto se fatto con lo spirito di promuovere un tema importante: quello della consapevolezza di come i nostri dati vengano utilizzati dagli attori che  gestiscono i servizi che quotidianamente sfruttiamo.

Ai più ancora oggi sfugge che Facebook, Twitter, Google e compagnia sono ben lungi dall’offrire come moderni benefattori digitali servizi gratuiti ai loro utenti. Tutt’altro: l’accesso a Facebook, la mail di Google, l’uso di Twitter sono pagati a caro prezzo. Ogni volta che scriviamo un tweet stiamo fornendo a Twitter un’informazione su di noi. Ogni volta che facciamo una ricerca stiamo dando a Google uno strumento per conoscerci meglio. Ogni volta che ci registriamo con un nostro amico su Facebook Places stiamo pagando Zuckerberg per i suoi servizi con una informazione preziosa  su dove siamo e con chi vi siamo.

In tale ottica è tutto molto semplice: alcuni operatori ci offrono dei servizi, noi paghiamo questi servizi con delle informazioni. A complicare le cose non è il fatto in sé, quanto piuttosto il fatto che spesso le persone che tali servizi li usano lo fanno nella beata (e beota) convinzione di usare servizi gratuiti. Ed è questo il vero problema. Non percepire la contropartita data dal valore delle proprie informazioni.

Quella alla semplificazione è una strana e pericolosa tendenza che porta facilmente al fraintendimento. È quella tendenza che fa si, ad esempio, che mentre l’ONU dice che Internet è uno strumento necessario per l’esercizio dei diritti umani tutti capiscono che Internet è un diritto umano in sé e magari propongono un router al Nobel per la Pace (e Vinton Cerf, che è uno di quelli che internet l’ha creata, fa notare l’equivoco e viene pure criticato).

Lo stesso sta succedendo con i servizi che su Internet vengono veicolati, con la sottile differenza che se è vero che internet è uno strumento di garanzia dei diritti non è detto che chi su internet sviluppa business debba necessariamente preoccuparsi di diventare a sua volta garante di tali diritti, fatti salvi gli scenari regolamentari fissati dalle Istituzioni (ed il tono di alcune delle recenti critiche a twitter per la sua nuova policy pare particolarmente significativo in tal senso).

Facebook vuole registrare ad aeternum i dati dei suoi utenti? Lo faccia pure, purché i suoi utenti ne abbiano piena consapevolezza e ne comprendano le conseguenze ed i rischi. Starà poi a loro decidere se usarlo oppure passare ad altro. Ed alle Istituzioni garantire che l’utente sia correttamente informato e che le aziende rispettino le regole.  Partendo però dal presupposto che “Don’t be Evil” è fuorviante in sé, per lo stesso motivo per cui chiedere all’oste com’è il vino non è particolarmente saggio.

E per lo stesso motivo, in fondo, è pericoloso confondere privacy e diritto all’oblio. Rappresentando la prima il sacrosanto diritto alla riservatezza che si esprime nella possibilità di scegliere se condividere o meno le proprie informazioni personali, il secondo invece quel fenomeno per il quale, una volta averle condivise, quelle informazioni prima o poi debbano (chissà perché) scomparire. E nell’era di internet quel “poi” è sempre più in là. Ma mentre la privacy è un diritto (pur mutevole nel tempo) di valore assoluto, può dirsi lo stesso del “diritto” all’oblio?

E d’altro canto: è mai esistito il diritto all’oblio? Dei facili costumi sessuali di Elena di Troia e della Monaca di Monza siamo ancora informati a distanza di tanto tempo e delle corna di Luigi XVI ancora si parla. Altro che diritto all’oblio! Certo, si parla di personaggi storici, di personaggi pubblici. Ma uno degli effetti collaterali della Coda Lunga non è proprio che tutti, in tal senso, divengono personaggi pubblici?

Ecco. Forse è questo il punto. Oggi la rete ci trasforma tutti in personaggi pubblici. O meglio: in personaggi le cui informazioni pubbliche sono disponibili in rete. E decidere quali siano le informazioni da rendere pubbliche – o condivise con alcuni attori – è diventato un problema che ieri non esisteva (o esisteva in misura minore). Un problema da conoscere e da saper gestire. Un problema del quale le Istituzioni devono farsi carico (non a caso in Europa si parla di digital literacy come skill). Un problema che non si risolve con il semplice fatto di essere “nativi digitali” e che anzi proprio ad essi spesso va fatto presente con forza e chiarezza.

Il punto, quindi, non è il diritto all’oblio. Non è forse nemmeno la privacy.

Il problema è la consapevolezza. È la necessità di far si che gli utenti sappiano a cosa vanno incontro e capiscano l’importanza di un atto, quello della condivisione, che è tanto bello quanto delicato da compiere. Perché se è vero che la forza di internet è proprio nel potere della condivisione, è altrettanto vero che come l’informazione rende liberi, non saperla gestire rischia di renderci schiavi di chi lo fa per noi. 

 

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