
E’ l’argomento del momento, non c’è dubbio. Iniziative e progetti per l’apertura e l’accessibilità dei dati di provenienza pubblica si moltiplicano presso molte Amministrazioni centrali e locali. Nello stesso tempo aumentano le domande che le stesse Amministrazioni si pongono sull’utilità e reale valore aggiunto di questi progetti; ma soprattutto l’interrogativo che viene rivolto ai gruppi di lavoro appositamente dedicati all’interno delle strutture pubbliche per tali progetti e’: “…si, ma quanto mi costa? Mostrami il ROI (Return on Investment) di questo progetto? Sgombriamo subito il campo; domande legittime, alle quali è necessario, comprensibilmente, cercare di fornire una risposta completa e, possibilmente, argomentata tanto più in momenti di spending review selettiva. Perché le PA dovrebbero aprire i propri dati, quindi? Se, in aggiunta, non si è in grado di dimostrare l’economicità/redditività di questi progetti?
Autorevoli analisti hanno concentrato opportunamente la loro attenzione sulle implicazioni economiche del paradigma Open Data (in particolare della PSI, Public Sector Information, come si definisce a livello Europeo per il riutilizzo dei soli dati pubblici); tralasciamo, per un momento, gli impatti in termini di trasparenza, partecipazione alla definizione delle politiche pubbliche e dei processi decisionali che questo modello agevola, che tipo di ritorno ha il policy maker nell’investire sull’apertura e condivisione dei dati prodotti?
Come emerge in occasione di incontri e dibattiti più o meno pubblici, l’argomento del ritorno degli investimenti della PA va inquadrato, a nostro parere, nella distinzione di ruoli che intercorre tra:
- Amministrazioni Pubbliche e società partecipate produttori di dati;
- Società, sviluppatori, software house e start-up che riutilizzano i dati prodotti e resi disponibili.
Sono ruoli e responsabilità ben distinti nel quadro dell’impatto economico e finanziario che generano; se, nel primo caso, siamo di fronte a soggetti che non hanno come obiettivo primario “fare business” (vendere prodotti/servizi) ma erogare servizi pubblici essenziali (Welfare), nel secondo invece devono alimentare un indotto costituito da servizi/applicazioni aggiuntivi, capaci di stare sul mercato e “ripagarsi” grazie ad un modello di business che ne consenta la sua economicità e la redditività degli investimenti necessari (capitale umano, beni materiali e immateriali, connettività, ecc.).
Ora, è del tutto chiaro che la differente posizione degli attori nella filiera del “modello Open Data” necessità di un’analisi diversificata per evidenziare costi, impatti sull’organizzazione, modalità operative. Come noto il ROI è un indicatore quantitativo prettamente economico-finanziario che misura la redditività del capitale investito:
ROI = Risultato operativo/Capitale investito netto operativo
Il risultato operativo è pari alla gestione operativa (conto economico), mentre il capitale investito netto operativo misura il totale degli impieghi caratteristici al netto degli ammortamenti e degli accantonamenti, ossia l’Attivo Totale Netto meno gli Investimenti extracaratteristici (investimenti non direttamente afferenti all’attività aziendale, ad esempio immobili civili). Nell’analisi economico/finanziaria di un investimento, quest’ultimo è da valutare positivamente se il valore del ROI ottenuto è almeno pari o superiore al tasso medio di interesse sul capitale (debito).
Al di la dei tecnicismi nel calcolo di questo indicatore, è del tutto evidente quanto questo non sia applicabile nel caso delle pubbliche Amministrazioni; questo per diversi ordini di ragioni:
- Come valutare i ricavi (cash flow) della PA? (nella maggior parte dei casi, i dati non vengono venduti)
- Come quantificare i benefici diretti ed indiretti, esterni ed interni all’amministrazione non monetizzabili dei progetti di Open Data?
- Come misurare gli investimenti non direttamente riconducibili al progetto considerato?
- Come spostare la prospettiva di valutazione degli ammortamenti e accantonamenti da un approccio tipicamente aziendale ad uno legato alle Amministrazioni pubbliche
Queste e altre criticità portano a ritenere questa metodologia per la valutazione dell’investimento in un progetto Open Data come poco adatta; mentre nel caso di soggetti riutilizzattori di dati pubblici siamo in presenza di costi/ricavi ben individuabili, ciò non vale per le PA, che, se da un lato ha sostenuto dei costi per la raccolta, sgrezzamento e selezione dei dati da rendere accessibili, dall’altro non è agevole imputare questi costi ad uno specifico dataset individuato per via di una macchina amministrativa complessa ed articolata. Dal lato dei “ricavi”, inoltre, progetti di Open Data hanno ricadute che vanno al di là di numeri facilmente quantificabili, coinvolgendo i territori ed i settori oggetto di osservazione, il livello di trasparenza dell’attività amministrativa, gli impatti macroeconomici.
Per tali motivi nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni è necessario ricorrere ad indicatori qualitativi basati sulla trasparenza, sulla partecipazione ai processi decisionali dei cittadini/utenti/dipendenti, oltre che quantitativi nella valutazione dell’opportunità di intraprendere la “strada” Open Data.
A tale scopo è più indicato ricorrere all’analisi costi/benefici; è possibile, con questo metodo, valutare benefici e costi diretti e indiretti di uno specifico progetto. L’idea alla base di questa metodologia è quella di un’analisi comparata dei vantaggi, in termini di miglioramenti del benessere collettivo, e dei costi, in termini di “prezzi ombra” delle risorse, relativi ai diversi possibili interventi pubblici, siano essi progetti di investimento o generica attività di regolazione normativa. L’analisi costi-benefici valuta progetti alternativi di intervento pubblico e consente di introdurre una migliore ponderazione di elementi qualitativi determinanti nelle scelte di investimento; la presenza di beni pubblici (come i “Data” prodotti sono) e di forti esternalità positive sono elementi che fanno propendere per questa metodologia di valutazione. È l’adozione del punto di vista della collettività nella valutazione dei progetti che vale a contraddistinguere l’analisi costi-benefici in senso stretto dall’analisi finanziaria, con la quale condivide l’approccio di fondo with-or-without la presenza dell’investimento.
In sintesi, risulta molto complesso valutare puntualmente i progetti di Open Data per la natura stessa dei benefici attesi da queste attività; più utile considerare la disponibilità dei dati “a prescindere” dai loro costi/ricavi, come un diritto di cui la collettività (gli utilizzatori) devono beneficiare. In ogni caso, l’analisi costi/benefici e le sue differenti declinazioni operative appare, per la sua maggiore flessibilità di applicazione, come la metodologia più indicata.