ImageImageImageImageImageImageImageImageImageImageImageImageImageImageImageImageImage

L’abuso è sempre un male, soprattutto quando si tratta di termini e titoli. Una ricerca non è scientifica perché la scrive un rappresentante dell’ambito accademico ed una Rete non è tale se l’insieme dei suoi nodi e dei suoi archi non porta valore all’intero  gruppo.
Almeno non per me né, credo, per una cultura della Rete che voglia trarre da essa quanto di meglio ha da offrire: è il potere del networking e dell’intelligenza collettiva.

Termini noti? L’esperienza mi dice il contrario.

Succede allora che certe ricerche vengano prese per Bibbia, o che certi toni tendano a polarizzarsi su posizioni che sono già sufficientemente inaccettabili nel mondo offline e che trovo francamente poco accettabili nel mondo Web governato – almeno in certi ambiti – da una modalità di comunicazione peer-to-peer.

Superate le dieci righe, direi che è chiaro a tutti che la “ricerca” a cui faccio riferimento è quella di Camisani Calzolari; però questo non sarà l’ennesimo post che ne decostruisce la validità punto dopo punto: c’è chi l’ha già fatto ottimamente e chi ha valutato anche altri possibili aspetti della questione. D’altra parte una ricerca scientifica che abbia davvero valore deve portare ad un significativo avanzamento nella teoria del settore di riferimento, possibilmente mediante l’applicazione di metodologie innovative e con finalità inedite.

E la Rete è un luogo fantastico per sperimentare insieme, purché si risponda alle domande che davvero contano: ricercatore o no, dov’è il valore di quanto si dimostra? Qual è la sua applicazione pratica? Nel caso della “ricerca” citata sopra, allora, la mia sensazione è che in tanti abbiano guardato al contenuto e pochi alle modalità con cui è stato distribuito (e alle alternative per farlo). Ed è a questo che voglio dedicarmi.

Ad ottobre 2011, durante uno degli aperitivi romani di Indigeni Digitali, tra una battuta e l’altra, è saltata fuori – insieme a Giovanni Scrofani (fondatore di Gilda 35 e ben degno di essere chiamato ricercatore) e ad altri amici – l’idea di mostrare quanto Klout fosse poco affidabile e, di conseguenza, facilmente influenzabile. Nacque così l’esperimento #ktrain (ne trovate una sintesi qui e nella relativa discussione sul gruppo Facebook di Indigeni Digitali) che, se è vero che divertì e coinvolse molti, fu anche fortemente attaccato da altri.

Qualcuno sosteneva che non avevamo dimostrato nulla, altri difendevano la validità di Klout, altri hanno imputato (magari, ma è chiaramente solo un caso) alla nostra azione l’introduzione di un nuovo algoritmo di calcolo dell’influenza su Klout stesso. La fallacia del sistema è poi stata confermata da vari altri esperimenti con troll e soggetti di vario genere (ancora una volta Gilda 35 resta il principale riferimento), ma il valore più rilevante di quell’esperimento, per me, è stato nella discussione che ne è conseguita: qualcuno ha scoperto che esisteva Klout, molti hanno cominciato ad interrogarsi sul suo effettivo valore, altri hanno cominciato a ragionare in ottica produttiva pensando a come scrivere degli algoritmi più efficaci e a come elaborare un tool più funzionale.

Consapevolezza, conoscenza, creatività. Community, se vogliamo ridurre tutto ad un unico termine.

Cosa NON è successo, invece, nel caso di Camisani Calzolari?

Innanzitutto, il set di dati non è stato messo a disposizione di tutti: bisognava – così veniva esplicitamente detto – richiederlo via mail.

In secondo luogo, c’erano dei seri problemi di chiarezza di intenti e strumenti: se non sai neanche che differenza intercorre tra BOT e fake follower, né sei chiaro nell’esplicitare perché includi certi criteri a sfavore di altri, non puoi accampare pretese di scientificità. Perfino i lurkers sono usciti dal loro sicuro tepore osservativo per fare presente che non sono dei BOT solo perché non gliene frega nulla di cambiare l’avatar con l’ovetto o perché non scrivono mai (cosa sono, followers zombies?)!

Terzo: il modo in cui la “ricerca” è stata presentata. Nelle precedenti puntate, Marco Camisani Calzolari aveva comprato 50.000 finti followers, allo scopo di dimostrare non solo la facilità (e la poca spesa) di acquisto ma anche per sostenere che molte agenzie si avvarrebbero di questi mezzi per raggiungere gli obiettivi concordati con il cliente.

Cominciamo da qui: la memoria della Rete non andrebbe mai sottovalutata. La Social-storia recente insegna che certi elementi sono persistenti, spesso più di altri.

Non me ne frega francamente nulla di sapere se davvero Camisani Calzolari e Flora furono coinvolti nelle vicende relative alla Moratti e all’esodo dei fan, ma trovo piuttosto singolare che il primo step della “ricerca” sia stato dimostrare come acquistare i followers (un dubbio personale: chi tiene così poco alla propria reputazione ed identità online da inquinare il proprio account con 50.000 finti followers solo in nome della ricerca? Fake per fake, io avrei creato un account falso e condotto l’esperimento su di esso) per attaccare le agenzie e poi presentare – secondo step – una “ricerca” i cui dati sono stati collezionati grazie al supporto di un’agenzia (The Fool, di Matteo Flora appunto). La chiamo mancanza di coerenza, non dimostrazione.

Sarà che credo nell’intelligenza collettiva – Romanticismo digitale? – ma non sarebbe stato interessante mettere i dati a disposizione di tutti (ben più elegante di dire poi che solo chi li ha richiesti ha dimostrato “serietà”) e, sfruttando le competenze di ciascuno, riflettere insieme su quanto rilevato?

Si sarebbero evitati anche errori grossolani come la confusione tra BOT (il cui aumento, peraltro, è fisiologico man mano che aumentano i followers di un account o – come classicamente accadde – quando attirati/attivati da certi hashtag) e falsi followers.

Soprattutto si sarebbe evitato il panico tra i non addetti ai lavori: c’è modo e modo di spiegare le cose, e l’italianissima “modalità minaccia” (con tanto di annuncio di prossime ricerche focalizzate su politici e personaggi celebri) non è certo il modo migliore per diffondere una cultura della Rete che ha bisogno di ESSERE Rete prima che vettore di panico.

Forse non sarebbe diventato un articolo da mainstream news, ma avrebbe arricchito notevolmente le competenze di tutti e avrebbe condotto la riflessione ad un livello più alto (evitando anche certe derive degli ultimi giorni). Non sto dicendo che non si debba più fare ricerca nelle università o all’interno delle aziende (ho finito un Dottorato lo scorso anno e continuo a fare ricerca in azienda e non solo, quindi…) e che tutto debba essere “esternalizzato” sulla Rete, ma cerco di immaginare che valore avrebbe avuto un approccio differente alla questione.

Intendiamoci, questo articolo non è un attacco diretto a Camisani Calzolari che neanche conosco, ma vuole essere una riflessione sul valore della Rete e sul modo in cui la Rete può generare valore. O può non farlo, sprecando delle occasioni che, invece, arricchirebbero tutti e potrebbero davvero cambiare il modo di fare sistema.

Alcuni anni fa – quando era ancora attivo Google Wave – ricordo che c’era un gruppo di BOT che svolgeva un lavoro fantastico: ripuliva le waves da righe in eccesso o commenti indesiderati, mantenendo un generale ordine formale e strutturale nei documenti creati.

Mantenere l’ordine nelle reti in cui siamo inseriti non è compito da BOT, è compito di tutti: onestamente lavoro moltissime ore al giorno e non mi piace perdere tempo in discussioni futili o attaccare tutto ciò che non approvo. Mi piace farlo in modo costruttivo.

Terremoto in Emilia, caso Groupalia (memo per tutti, il tweet dello scandalo: “ “Paura del #terremoto? Molliamo tutto e scappiamo a #SantoDomingo!”). Ricordo di essermi arrabbiata moltissimo, di aver reagito postando lo screenshot di quanto pubblicato da loro su Twitter all’interno – ancora una volta – del gruppo Facebook di Indigeni Digitali.

Poi però, vedendo quanto valore la conversazione stava generando, ho fatto un’altra proposta: perché non provare a suggerire o almeno a riflettere insieme su come invece si sarebbe dovuto agire in un caso simile (riflessione poi portata avanti sui vari blog)? Se c’è una cosa che ha caratterizzato studi, ricerche e mestieri del Web e dei Social negli ultimi anni è stato proprio il fatto che si è avuta la possibilità di sperimentare, capire e provare INSIEME a trovare nuove soluzioni.

Quanto valore, allora, si ricaverebbe se si facesse davvero sistema (sul serio, non a parole)? Se si giocasse insieme a capire certi meccanismi, a decostruirli, a dimostrarne la fallacia e, con pazienza e senza panico, a farlo capire anche a chi non se ne intende, per poi proporre nuove soluzioni?

Non provo nemmeno – in nome del principio della Social-memoria – a ricordare a tutti quanto si sa già dai tempi della rivoluzione iraniana del 2009 e cioè che la Rete, Twitter nella fattispecie, ha giocato un ruolo essenziale nella diffusione di notizie e informazioni. E’ un tema noto da anni e confermato successivamente dalla primavera araba, dai vari #occupy*, dal ruolo della piattaforma di microblogging durante le catastrofi naturali (Giovanni Boccia Artieri, ad esempio, ha spiegato ottimamente come sia stato usato Twitter dai brand durante il terremoto in Emilia). Crowdsourcing, partecipazione, diffusione delle informazioni e collaborazione.

Eppure sono stati proprio gli utenti a fare per primi un uso di protesta degli hashtag (uno dei primi celebri hashbmobs fu #amazonfail nel 2009), sono gli utenti che definiscono gli usi ed il valore della Rete stessa.

La Rete dunque non è il luogo del “chi sbaglia paga”, ma può essere il luogo della co-correzione. E della co-generazione.

Il valore del networking? Inestimabile (e no, non si può comprare online).

UPDATE AL POST: Mi spiace essere stata fraintesa. Per dare il giusto rilievo a questa mia riflessione conclusiva e non “limitarla” nei meandri dei commenti ho chiesto a Stefano Epifani di poter aggiornare le conclusioni del mio pezzo con questo update. Il mio intento era quello di fare un post nel quale evidenziare come la rete sia uno strumento di costruzione collettiva di senso, non certo quello di attaccare Marco Camisani Calzolari, che tra l’altro neanche conosco personalmente ma soltanto attraverso ciò che scrive e pubblica online. Nel leggere alcune delle riflessioni emerse qui e su Facebook mi sono resa però conto del fatto che le posizioni di molti di noi che abbiamo preso parte a questa discussione si sono radicalizzate. Il mio intento non era quello di scagliarmi contro qualcuno. Era quello di discutere su un fatto e di farlo in maniera aperta e collaborativa, ma soprattutto era quello di sottolineare il valore del networking.

Per questo, come dicevo all’inizio di questo update, mi spiace essere stata fraintesa. In particolare mi spiace che Marco Camisani Calzolari si sia sentito chiamato in causa nella questione dei fan della Moratti, quando in effetti – come lui ha immediatamente puntualizzato nei commenti – si è limitato a fornire il CMS senza operare su strategie e contenuti. Allo stesso modo, prendo atto del fatto che alcuni dati siano stati omessi dal set di dati reso pubblicamente disponibile per motivi di privacy e vincolati da password, e che Marco Camisani Calzolari non abbia parlato di BOT ma di “comportamento da BOT”, sebbene – come ho sottolineato – mi interessano le conseguenze e il modo con cui il contenuto è stato recepito, e a tal proposito si è ampiamente parlato di BOT e a ciò ho fatto riferimento. Tutto questo, naturalmente, non cambia il mio parere in merito alla sostanza della ricerca, ma fa giustizia – spero – alle richieste di precisazione di Marco Camisani Calzolari. E dimostra, in fin dei conti, che – dal momento in cui siamo stati tutti qui a discuterne – la rete è davvero uno strumento di costruzione collettiva di senso, in cui tutti noi cresciamo in funzione degli stimoli che, in queste discussioni, emergono. Ciò dimostra dunque che – come auspicavo nel post – la Rete può essere un autentico strumento di dialogo 🙂

©2025 Fondazione per la sostenibilità digitale

Tech Economy 2030 è una testata giornalistica registrata. Registrazione al tribunale di Roma nr. 147 del 20 Luglio 2021

Powered by DTILab  - Designed by Fattoria Creativa - Developed by EHT