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Non ero mai stata ad Amburgo prima di questo lunedì e vorrei davvero scrivere che sono state le differenze con l’Italia ad impressionarmi, ma in realtà sono le analogie che ho trovato che mi hanno confermato quello che ormai dico da mesi e mesi (una sorta di mantra che continuavamo a sentire al MIT): i big data e la capacità di analizzarli correttamente rappresentano la vera grande fonte di informazioni, strategie e lavoro dei prossimi mesi.

Sì lavoro, dal momento che la figura del data scientist – questo ibrido scientifico-umanista – diventa centrale nei processi aziendali e nella costruzione di una efficace strategia di marca.

E’ di questo che ho parlato ad Amburgo durante il mio keynote al Digital Marketing & Media Summit, ed è lì che mi sono resa conto che quando si parla di big data e di monitoring, indipendentemente dal Paese in cui ci si trova, si parla comunque una lingua comune.

Il Summit era supportato da vari sponsor che producono principalmente piattaforme dedicate al Social Media Monitoring (tra questi Brandwatch, TalkWalker e BuzzRank), ma soprattutto – al di là degli spazi di conversazione e conversazione – il Summit è stato un luogo per me rivelatore. Di tendenze, di strategie, di azioni che hanno trovato nelle case histories presentate – quasi tutte di terra germanica – una loro forma concreta.

Concretezza è forse la parole che meglio fa il paio con big data, insieme a difficoltà: di processare questi dati e di trarne degli insights effettivamente applicabili.
Non è difficile, infatti, raccogliere conversazioni online e dati (anche economici) legati alle proprie attività aziendali, neppure lo storage rappresenta più un grande problema.

La domanda comune invece resta invariata: cosa facciamo con questi dati ora che li abbiamo raccolti? Come ho scritto qualche tempo fa, credo sia possibile identificare tre ondate di “social consciousness”.

In un primo tempo l’atteggiamento aziendale prevalente era quello fatalistico: “Se tutti i miei competitors sono sui social perché non dovrei essere presente anch’io?”. Spesso dietro atteggiamenti di questo genere si celava una generale sfiducia nel mezzo ed una certa diffidenza nei risultati che avrebbe potuto generare a livello di impatto sui brand.

Poi venne il social CRM e si cominciò a capire il vero senso di certe pratiche e ad accordare un forte valore alle potenzialità di engagement generate dai social media: la seconda ondata è dunque quella che ha condotto alla consapevolezza che i social media sono degli “abilitatori di relazioni”.

Da circa tre anni è avvenuto un ulteriore salto che ha aperto la terza “social consciousness wave”: Gatorade, Dell, Intel in Usa hanno dato vita a dei Social Media command center, mentre i KPI e gli analytics legati ai social sono stati oggetto di numerose riflessioni ed applicazioni in termini di modelli di valutazione.

Finalmente un processo che era stato fino a quel momento lineare, trovava la sua realizzazione in un incontro tra la disponibilità crescente di dati legati alle interazioni online e la capacità di analizzarli che – per quanto rapida – non era (non è tutt’ora) tale da poter stare al passo con la crescita esponenziale dei dati da analizzare.

Contemporaneamente, allora, è cresciuta la sensibilità intorno al tema del Social Media Monitoring e lo ha fatto a tal punto che si è passati da un generale consolidamento dei KPI quantitativi ad una fase più matura di analisi degli stessi che volge verso l’ambito qualitativo.

E’ il momento in cui, insomma, la misurazione comincia a diventare strategia ed il monitoring diventa pare integrante del modo di pensare aziendale. Almeno, così dovrebbe essere. Si dà allora maggiore rilevanza all’analisi delle reti che emergono dalle conversazioni, ai loro risvolti di carattere netnografico ed in generale alle potenzialità che i big data hanno nell’osservazione e previsione dei comportamenti degli utenti.

Non è un caso se i predictive analytics trovano attenzione ad esempio in attività accademiche come quelle del gruppo di Human Dynamics al MIT Media Lab. Al fronte, infatti, di un’aumentata capacità di collezionare e ordinare dati, emerge una maggiore necessità di trovare persone in grado di dare loro un senso e di fare dialogare i dati con le aziende.

Così ad Amburgo è emerso che il monitoraggio non rappresenta una semplice espansione delle attività aziendali ma in qualche modo è parte di esse ed è al di sopra dei silos autonomi rappresentati da comunicazione, marketing, vendite, etc.

Il Social Media Monitoring può insomma diventare concretamente un produttore di senso:

  1. senso che parte dai dati
  2. senso che va verso le strategie aziendali e le influenza
  3. senso delle relazioni create dai Social

Quando l’ho detto al Summit annuivano tutti. Sembrava che stessimo guardando in una sola direzione. E la stessa cosa si è verificata ieri – durante un panel dedicato alla Social TV durante la Social Media Week di Torino.

Ero lì per parlare di Socialtainment, di pratiche d’uso, di second screen. Sedevo con RAI, Mediaset e Sipra. Ma quando è venuto fuori il tema big data, quando si è concretamente cominciato a parlare di necessità di trovare una matrice comune di azione per la raccolta e l’analisi dei dati generati dalle interazioni online, di nuovo magicamente abbiamo parlato tutti la stessa lingua.

Big data. Big analysis. Big challenge. Big predictions.

Big topic, senza dubbio. Ed era anche ora.

 

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