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Mi sono imbattuta in questo bel post di Antonio Tombolini per caso ma ci ho cominciato a riflettere preoccupata. Da tizia che da anni sta sulla rete non posso che arrendermi di fatto alla verità in esso contenuta: sul web l’autore (blogger, fotografo, battutista e chi più ne ha più ne metta) produce contenuti, spesso bei contenuti, alle volte anche grandiosi. Che vengono riprodotti da tanti e rilanciati senza che per tutto lo sforzo fatto gli venga quasi mai riconosciuto un compenso economico. Anzi, il paradosso di Tombolini è più che mai vero: più produci cose che piacciono e vengono rilanciate, ribloggate, divulgate meno riesci in qualche modo a ricavarne un compenso.

blogSi potrebbe parlare di un paradosso della modernità, ma in realtà è un ritorno alle origini: lo scrittore ed il poeta, nei secoli passati, non a caso era quasi sempre un tale che scriveva per proprio diletto personale, e le cui opere venivano divulgate senza che ci guadagnasse un soldo: un ex politico in disgrazia come Tucidide, un mercante arricchitosi come Erodoto, un aristocratico eccentrico come Petronio Arbitro, un giovane bohemienne che millantava problemi economici con alle spalle le sostanze di famiglia, come Catullo. Il letterato di professione era quello che riusciva a farsi mantenere da un potente, o da più d’uno, vedi Virgilio o quel genio del marketing che era Petrarca; per gli altri, dotati di scarsa abilità nel vendersi sul mercato, c’era una vita di stenti e di peregrinazioni, anche quando dotati di immenso talento: Dante sia l’esempio per tutti.

Il contenuto, ha ragione Tombolini, di per sé non rende. Per questo i blogger hanno capito da tempo che non devono sperare di vendere i loro singoli post ma il loro personaggio creato in rete: diventare famosi per ciò che si scrive per poi passare alla cassa in quanto testimonial: di una azienda, di un settore, mirare all’ospitata fissa nei programmi tv, alla collaborazione (pagata) con giornali e portali.
Non è raro vederli trasformarsi in prezzemolini da inaugurazione, presidiare poltrone in trasmissioni televisive con su la coccarda da novello tuttologo. Non vogliategli male: percorrono la stessa strada di tanti giornalisti e intellettuali vecchio stile, i quali dopo anni di studi sulle sudate carte e articoli pesi e documentati hanno scoperto che giova di più al conto corrente una battuta da Barbara d’Urso o da Fazio che due premi Pulitzer nel cassetto.

Il problema semmai del blogger, come dello scrittore d’altri tempi, è che i mecenati in questa nostra epoca scarseggiano: aziende in crisi con bilanci sempre più risicati, tv che ristagna. Trovare qualcuno che paghi – non dico manco bene: che paghi e basta – è sempre più un terno al lotto. E quello che suggerisce Tombolini, cioè concentrarsi sul packaging, non sempre è possibile o fattibile: perché la cosa triste è che il blogger puro, di solito, apre un blog perché sa fare una cosa sola bene, cioè scrivere. Non ha né il fisico né la presenza scenica per tenere un pubblico tv, non è un attore o un mattatore; per giunta non sa fare altro che produrre bei contenuti e non ha altro da vendere, perché non ha talento da imprenditore e non sa produrre nulla.

Per cui la stragrande maggioranza resta a fare quello: produrre contenuti fantastici che sono riprodotti e divulgati come il pane, ma che non portano un soldo. Per cui il blogger è costretto nella vita a fare altro o a sperare di avere per fortune di famiglia un patrimonio tale da poter continuare all’infinito con il suo divertente hobby, come Catullo. Senza neppure avere la consolazione di una fama sempiterna e postuma, perché si sa che poi, sulla rete, dopo mezz’ora che hai scritto un immortale post, è già tutto old e non se ne ricorda nessuno.

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