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“#Mediaplanning: questo corso è unconventional e funziona. #Sapevatelo” ho trovato questa scritta, stile Twitter, qualche tempo fa sulla lavagna dell’aula. Più sotto: “unconventional= famolo strano”. Ma io l’Università non volevo farla “strana”, volevo farla “vera”. Ma probabilmente sono la stessa cosa.

Creatività versus Burocrazia. L’esortativo alla Verdone “Famola strana!” sottolinea l’abolizione di alcune procedure e rituali consolidati. “Non prendo le firme, perché non devo catturare voi ma, spero, la vostra attenzione” è la mia abituale premessa all’inizio di ogni anno. A che servono infatti i tornelli, fisici o procedurali? In ordine di tempo l’ultimo a illudersi che un cervello umano produca di più, se imprigioni il corpo che lo contiene, è stato il ministro Brunetta.

Gli studenti non firmano la presenza, ma la autocertificano alla fine del corso fornendo contestualmente una serie di riflessioni critiche utili per migliorare il corso dell’anno successivo che, certo, non riguarderà loro ma i colleghi che verranno. Perché l’etica è proprio questo (grazie, don Ciotti!): “Avvertire la responsabilità nei riguardi dell’altro”. E non devono riempire un modulo, non devono mettere crocette: sanno qual è lo scopo dell’operazione, scelgono loro il format di risposta che ritengono più adatto a rappresentare come hanno vissuto il corso, cosa è da conservare, cosa da cambiare. E rispondono con un ppt, con prezi, con un video, con un jingle…

Un media plan “hic et nunc”. Sono affetto da instabilità motoria. Non riesco a stare in cattedra. Ho bisogno di ridurre le distanze, avvicinarmi ai miei interlocutori, sedermi talvolta in mezzo a loro per avere il medesimo punto di vista, scambiare i ruoli, abituare gli studenti a parlare da un microfono, a utilizzare con costanza forme semplificate di brainstorming. E soprattutto a considerare, e a far considerare, la presenza fisica di tanti cervelli in un medesimo posto (e per obiettivi comuni) un inestimabile valore aggiunto.

Gli esami sono l’unico momento nel quale mi annoio. O per meglio dire l’esame tradizionale, stile stazione di polizia: a domanda, lo studente risponde. Ritengo riduttivo valutare quanto uno studente abbia studiato, credo che lo scopo sia consentire, a lui per primo, di valutare la capacità di utilizzare gli strumenti culturali di cui si è appropriato. Per questo, in alternativa all’esame tradizionale, c’è la possibilità di presentare un “media plan” sulla base di regolari briefing che le imprese vengono a tenere in aula durante il corso. Insomma gli studenti presentano un prodotto, il loro prodotto. Perché non c’è sistema migliore per imparare a fare una cosa, che provare a farla, inciampare, rendersi conto di cosa manca e rifarla. Un piano per un caso concreto, non per una simulazione, per qualcosa che può essere utile a qualcuno e da domattina: un media plan “hic et nunc”.

Ancora i “libri di testo”? Credo che quello del docente oggi, nell’era della Post Università, sia essenzialmente un lavoro di regia selettiva degli infiniti flussi di conoscenze che fasciano le nostre esistenze. Nell’epoca sempre più ipertestuale, non ha più senso vincolare l’acquisizione del sapere. Fornisco indicazioni e non solo bibliografiche, ma non ci sono testi obbligatori. Più che prescrivere contenuti, è meglio partecipare obiettivi. E valutarne insieme il raggiungimento.

Credo nell’efficacia della pluralità di voci e di stili comunicativi che si alternano in un’aula: negli ultimi cinque anni ho invitato una cinquantina di aziende, enti e agenzie chiedendo di parlare agli studenti come a dei futuri professionisti, non per raccontare favole belle ma per analizzare gli splendori e le meschinità del mercato pubblicitario, gli entusiasmi e le frustrazioni dei mestieri della Comunicazione.

Sulla cattedra ci vanno loro, i testimonial aziendali, e i miei collaboratori. E anche gli studenti. Dietro le quinte, curo la regia e osservo nuovi comunicatori che crescono. Poi cerco di accompagnarli verso il mondo del lavoro, per non lasciarli soli di fronte alle contraddizioni di un sistema in cui la crisi è un dato di fatto ma anche, e contemporaneamente, un alibi per aziende che chiedono talenti ma non sono in grado di riconoscerli. Come spiegai, qualche tempo fa, in una lettera aperta alla Marcegaglia.

Perché ci siamo? Ci stiamo anche per questo: per evitare che la ricchezza della conoscenza a disposizione, l’enorme facilità di entrare in relazione, coniugata con il nuovo mito del tempo reale e del conseguente desiderio di disporre di tutto in tempi rapidissimi non riduca le conversazioni a strumento di scambio superficiale, linguisticamente impoverito. Lingua più povera vuol dire non trovare più le parole che nominano le cose, le situazioni, e le infinite sfumature dei sentimenti. Come se la nostra tavolozza espressiva riducesse progressivamente i suoi pantoni, portandosi verso i colori elementari per scoprire che non è più capace di mescolarli.

Ci stiamo per evitare che il trionfo della tecnicalità uccida la visione d’insieme, la capacità di interpretare i fenomeni, la lettura e la gestione della complessità quotidiana. E non sto parlando soltanto di educazione professionale. Noto una straordinaria disattenzione sociale sul tema dell’educazione sentimentale che, privata delle letture, delle confidenze, del confronto tra etica e passione, della dialettica tra divieti e convezioni da un lato e spazi da conquistare dall’altro, rischia di ridursi alla mera presa d’atto di fenomeni fisico-meccanici. Come “You Porn”: la versione più meccanica appunto, ripetitiva e noiosa dl sesso, di un’umanità talmente impoveritasi della capacità di rappresentare e descrivere pulsioni e sentimenti, da essere rappresentata esclusivamente come un dispenser automatico di secrezioni. Se sparisce la sensualità dei gesti, degli sguardi e delle atmosfere, l’erotismo annaspa e non resta che la strada stucchevole del porno.

Le parole per dirlo. “Voglio un’Università che mi faccia piangere e sognare”. Suona bene, ma non so quanto sia detto con consapevolezza: cosa c’è dietro il “piangere” e cosa dietro il “sognare”. Cos’è, una richiesta di maggiore rigore? Di una preparazione più solida che implichi sia l’abbondante dispersione dei fluidi tipici del sacrificio (sudore e lacrime) sia l’aiuto a identificare obiettivi ambiziosi (sognare)? Oppure è solo la semplificazione del pensiero breve, della frase emotivamente forte che nasconde contenuti deboli, incerti, in realtà non indagati, perché l’importante è dire, autorappresentarsi, chattare, postare, twittare, commentare. Non hanno risposte certe: preferirebbero la prima ipotesi, ma si trovano più frequentemente –me l’hanno detto in tanti- a gestire l’incompletezza e l’insoddisfazione della seconda.

Non siamo in cattedra solo per raccontare uno specifico professionale e per fornire strumenti d’interpretazione e gestione di contesti giuridici, economici, sociali, comunicativi. Non ci siamo per raccontargli le nostre soluzioni e i nostri percorsi ma per aiutarli a trovare i loro. Ci siamo per fargli scoprire che le risposte, e le parole per formularle, stanno dentro loro stessi e non altrove. Sì, sto parlando d’ironia e maieutica: il percorso è sempre quello indicato da Socrate e Platone. Poi, di volta in volta, l’insuperato metodo prende i nomi che il marketing del restyling di prodotto suggerisce, per renderlo più appetibile alle generazioni contemporanee che hanno sempre meno tempo per tutto. Figuriamoci per indagare le radici del pensiero. Quindi, se vi appaga, se vi suona più familiare, chiamatelo coaching.

Che poi, tutto sommato, è anche più spendibile. Una cosa è dire: cerco di essere un buon coacher dei miei studenti, altra sarebbe affermare di porsi nei riguardi degli studenti come Socrate con i suoi discepoli. La grandezza del riferimento annichilisce e ti senti a rischio pernacchio. Sì, pernacchio sostantivo maschile: quello della “lectio magistralis” del grande Eduardo De Filippo. Perché, da sempre, i maestri e la conoscenza non stanno solo nei libri, ma nella vita intorno.

 

SCRITTO DA Marco Stancati

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