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Sopravvalutato. Sovrastimato. Mancante di un vero piano per fare business. E’ stato detto questo, e anche molto di più, nelle analisi che han cercato di spiegare il flop di Facebook in borsa, ovvero il paradosso di una azienda che ha milioni di milioni di utenti, ma le cui azioni, in pratica, non si vuole accattare nessuno. Una azienda, che, diciamolo chiaramente, secondo tutte le teorie più moderne del marketing può offrire la più completa e capillare profilazione dell’utente, e la più attendibile, in quanto fornita volontariamente e gratuitamente dall’utente stesso. Una specie di scrigno delle meraviglie che ogni pubblicitario sogna: avere centinaia di migliaia d’informazioni su gusti, scelte ed orientamenti dei propri clienti potenziali.

Eppure non funziona. Perché? A naso, per me che non sono “del mestiere”… ma un po’ di esperienza sul campo ormai ce l’ho, direi per due ordini di motivi, che si possono così sintetizzare: il paradosso del troppo che stroppia e il problema del giocare troppo d’anticipo.

1) Il paradosso del troppo che stroppia: un pubblicitario che deve fare una campagna di marketing, per quanto mirata ad una certa tipologia di pubblico o ad una nicchia ha il problema, però, che i dati e la profilazione di Fb possono essere per lui fuorvianti, proprio perché troppo completi.  Vale il principio del vecchio detto per cui è facile amare l’umanità in generale, il difficile è amare gli uomini ad uno ad uno.

Ecco, su Facebook stiamo tutti come uniche irripetibili singolarità. Ci portiamo dietro le nostre idiosincrasie, le nostre manie particolari, i nostri amici, le nostre foto, gli odi politici o calcistici, e le riversiamo tutti assieme sulle noste bacheche, con un flusso ininterrotto e non mediato. Il povero pubblicitario che si trovi in mano questa abominevole massa di dati grezzi, per quanto gli algortimi gliela possano filtrare, che deve fare, povero caro? Costruisce una campagna mirata e singola per ognuno di noi, conto che X ama la cioccolata ma odia l’inter, adora i gatti e convive con la terza compagna, mentre Y si è sposato una sola volta trent’anni fa, se vede un gatto anche solo in foto imbraccia il fucile e tifa Chievo? Una operazione del genere sovrasta le forze e la genialità di qualsiasi pubblicitario, e anche i possibili budget di investimento di ogni azienda. Meglio per lui, dunque, dati filtrati da un algoritmo, che selezionino tutti quelli che amano i gatti e sono sposati da vent’anni, per dire.

Ma allora gli studi che Facebook può fornire al pubblicitario non sono diversi da quelli che può fornirgli qualsiasi altro tipo di società di indagini di mercato. A questo punto, nasce un dubbio: Facebook è sicuramente una miniera di informazioni, ma sono informazioni interessanti e soprattutto fruibili per chi oggi fa marketing?

2) Il secondo paradosso è quello di arrivare troppo presto: Facebook, come tutti i social network, sta creando un mondo nuovo, e soprattutto un nuovo tipo di pubblico. Esattamente come hanno fatto, ai loro tempi, il telefono, la tv e internet (in senso lato): hanno rivoluzionato il modo di comunicare e perciò anche il modo di vivere delle persone. Il problema è che quando esce una novità di questo tipo, anche se siamo in un modo “veloce” gli effetti veri e reali si possono quantificare dopo almeno una generazione.

I nostri genitori (parlo di noi quarantenni) avevano la tv in casa e la guardavano, ma valutavano i programmi e le informazioni con criteri che si erano formati prima dell’arrivo della tv stessa; noi siamo nati con la tv ne abbiamo altri, che sono naturaliteri “televisivi”. Il processo formativo di un tipo di utente completamente nuovo è sempre più lungo, ma alla fine irreversibile. Noi siamo in mezzo al guado: le nuove campagne pubblicitarie, le idee davvero innovative su come usare i social anche per fare business probabilmente non verranno dalla nostra generazione, ma dalla prossima: quella per cui stare su un social sarà una cosa normale come per noi fare una telefonata o  accendere la tv.

Per ora, sia il pubblico che sta sul social sia chi, soprattutto, deve pensare alle campagne pubblicitarie per i nuovi media, è nato, cresciuto ed usa criteri che sono tutti ancora dell’epoca pre-social. Il che non vuol dire che non possa avere delle trovate geniali, a volte. Ma che comunque le sue idee geniali sono figlie di un altro mondo, per cui al nuovo universo dei social e del pubblico interconnesso si adattano. Un po’ come i varietà della vecchia Rai con le Kessler funzionavano nell’Italia dei primi anni ’60, ed erano bellissimi: ma erano teatro portato in tv, non un vero genere autoctono e televisivo. Ora, che il pubblico di “nativi televisivi” è diventato la massa, il varietà modello Studio Uno o il Nero Wolfe di Buazzelli non esistono più, se non nei nostalgici vagheggiamenti delle Teche Rai, e il pubblico guarda CSI e dottor House, che i pubblicitari inzeppano di prodotti e spot.

Siamo cambiati, siamo diversi. Ma ci vuole tempo, ci vuole.

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