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Come è accaduto che “start-up” sia diventata la parola chiave attorno alla quale ruota l’agenda setting delle politiche per l’innovazione del paese?

Per prima cosa metto le mani avanti per non essere fraintesa: sono anch’io convinta che sia drammaticamente urgente in Italia favorire un ecosistema che permetta alle idee di diventare impresa. E che non abbiamo più tempo: o innoviamo il nostro sistema economico (e la nostra società tutta) o non fermeremo il nostro declino.

Fare in modo che anche nel nostro paese idee imprenditoriali nuove, visionarie e “dal basso” possano avere un futuro è un obiettivo strategico. Ma siamo sicuri che non stiamo partendo dalla coda?

L’innovazione (o meglio la possibilità di fare innovazione in maniera non estemporanea) nasce essenzialmente da tre fattori:

  1. Il macro-ambiente
  2. La dimensione delle imprese e la loro capitalizzazione
  3. La maturità della domanda

Ed infatti, i paesi con il più alto tasso d’innovazione (The Global Innovation Index) li ritroviamo anche nelle prime posizioni dell’indice delle libertà economiche, dove l’Italia ha un piazzamento a dir poco sconfortante. Non parliamo neanche dell’indice di corruzione e della vetustà dei procedimenti amministrativi e delle pratiche burocratiche.
E, accidentalmente, in Italia le imprese soffrono di sottocapitalizzazione e di incapacità di crescita dimensionale. Moltissime sono ancora le aziende “familiari”, che difficilmente sono inclini ad aprirsi a una gestione manageriale o a investire in ricerca e innovazione. E, ancora, in Italia l’accesso al credito è una chimera.

E lo stimolo all’innovazione proveniente dalla domanda interna? Vale la pena ogni tanto ricordarci che viviamo in un paese dove ancora quasi 40% della popolazione non utilizza internet, dove la diffusione della banda larga fissa è pari al 22% della popolazione, in costante ritardo rispetto agli altri paesi dell’UE e con solo l’8% delle connessioni a una velocità superiore ai 10 Mbps, e dove l’ecommerce è un fenomeno di supernicchia. Ma non andrei oltre coi cahiers de doléances: tutti conosciamo la realtà che ci circonda.

Senza incidere pesantemente e urgentemente su questo scenario, a cosa serviranno gli incentivi alle start-up? Come potranno resistere dopo il seed iniziale, come potranno svilupparsi e non rimanere “start-up” per sempre.
In questo contesto, la quotidiana omelia sulle  “start-up” mi sembra tanto un’operazione di displacement, una confortevole coperta sotto cui ripararsi dalla fatica di intraprendere azioni più complesse e difficili, come – ad esempio – pensare seriamente a come riformare l’intero impianto socio-economico del paese. Altrimenti continueremo a vedere ancora molte ALCOA e poche start-up di belle speranze.
Ma so già che questi pensieri mi rendono antipatica e imperdonabilmente fuori moda.

Oramai è un innamoramento collettivo.  Tutti siamo innamorati delle start-up. E al cuor non si comanda.  Contemporanea antropologia italica: deve essere, più o meno, un po’ quello che è successo con la bresaola, o la rughetta, o – quando ero ragazzina-con le penne alla vodka.

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