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Nella prima puntata abbiamo lanciato il sasso: attenzione a non scivolare dal Digital Divide nel Press Divide. Nella seconda abbiamo messo l’accento sul fenomeno misurabile delle Diete Mediatiche Sbilanciate. In questa terza, e ultima, una narrazione e qualche considerazione sull’inutile contrapposizione tra analogici e digitali.

L’intimità delle parole

Qualche mese fa: laboratorio di “media plan” con un gruppo di studenti. Di fronte a tre termini a loro sconosciuti, in un testo sui linguaggi pubblicitari, soltanto un quarto (scarso) degli studenti provò a individuarne il significato facendo ricorso all’etimologia o all’ermeneutica, tutti gli altri si affidarono immediatamente ai motori di ricerca su Internet. Gli studenti che provarono, e collettivamente, a cercare una risposta sulla base degli strumenti culturali già in loro possesso appartenevano, tutti, alla ristretta cerchia di soggetti con dieta mediatica bilanciata (Internet e Audiovisivi ma anche carta stampata). A distanza di una settimana, la metà degli studenti che si erano affidati meccanicamente ai motori di ricerca, imbattutisi nuovamente in uno dei tre termini non ne ricordava più il significato (“ma tanto c’è sempre Google…”). La riprova che senza consapevolezza del significato intimo delle parole (da ricercare, ricostruire, verificare), è difficile memorizzare. E, se pure si memorizza, non si metabolizza.

La vita non è un claim

Detto questo, reputo assurda la contrapposizione generazionale tra analogici e digitali: il digitale ha invaso la nostra vita senza guardare all’anagrafe ed è una parte sempre più significativa della quotidianità di tutti. Guardarsi come appartenenti a mondi con categorie, valori e strumenti inconciliabili non ha senso. La diversità se partecipata, condivisa, conciliata appunto è una ricchezza. In quest’ottica va trasmessa la capacità degli analogici di fare ordine nell’abbondanza informativa e comunicativa, tipica della nuova società della conoscenza, selezionando, filtrando, scegliendo. E soprattutto verificando e confrontando continuamente. Non basta costruirsi, su e grazie a Internet, il proprio personale palinsesto informativo e relazionale approfittando delle possibilità di estrema personalizzazione oggi offerte dalla tecnologia. E poi leggere il mondo attraverso quest’unica lente, che potrebbe essere una lente distorta. La Community è un di cui del mondo, gli altri esistono anche se non sono nel nostro Social Network.

Quel palinsesto personale, nel quale –per dichiarazione degli stessi giovani- c’è anche tanto inutile rumore di fondo, sarebbe certamente di maggior qualità (e produttività) se fosse costruito non ascoltando esclusivamente l’emotività più epidermica ma ridando spazio alla parte razionale. Che ha bisogno di approfondimenti, d’indagini, di tempi più lunghi, di pensieri articolati che non tollerano di essere costretti in slogan di cinque secondi, tanto apparentemente brillanti quanto sostanzialmente asfittici.  La vita non è un claim, quella è pubblicità.

Gestire la complessità

E concordo con Marco Lodoli quando afferma che “ la scuola questo (ricominciare a far pensare, cioè) deve riprendere a fare, contro la cultura del desiderio che vive di smanie istantanee, puntiformi e distruttive, contro chi agita nei ragazzi solo l’emotività, come se la vita fosse solo sballo, divertimento, notti da inghiottire e giorni da dormire e corri dove ti porta il cuore[1].

Cosa ben distante – aggiungo – dal concetto di “intelligenza del cuore”, che giustamente rivalutammo per presidiare il rapporto con noi stessi e con gli altri ma che, poi, abbiamo degradato molto spesso a mera e nevrotica emotività.

Dopo aver esercitato, infatti, tutte le possibili forme del consumismo delle cose siamo giunti, e da tempo, al consumismo emotivo, che non è stato prodotto dai nostri figli, ma è il brodo di coltura nel quale sono cresciuti.

Ripartire, riappropriandoci del ruolo di adulti (genitori, docenti, datori di lavoro, politici), vuol dire anche assumersi, nella difficile quotidianità e non episodicamente, il compito di stimolare comportamenti coerenti con la costruzione di una personalità che abbia capacità di una visione critica del contesto. Leggere, ad esempio; e leggere anche la carta stampata. Perché, anche se in toni meno apodittici del Rapporto Censis[2], sono convinto che il Press Divide giochi un ruolo non secondario nella possibilità che una parte delle nuove generazioni non siano attrezzata a gestire la complessità della vita quotidiana.

 


[1] “Basta con la scuola del cuore, ricominciamo a pensare”. La Repubblica, 31 agosto 2011

[2] Censis-Ucsi, Nono Rapporto sulla Comunicazione “I media personali nell’era digitale”, pag. 74. Franco Angeli, 2011

SCRITTO DA Marco Stancati

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