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Matteo Renzi: a sinistra non pochi lo detestano, a destra non pochi lo temono. In alcuni casi trasversali, entrambe le cose. E quelle larghe intese che sono state ingurgitate a fatica a livello governativo, sono decollate senza problemi verso un obiettivo non formalizzato ma fortemente condiviso: ammazziamolo (mediaticamente), prima che sia troppo tardi, il socialdemocratico alla fiorentina.

Tranquilli, non è un’altra analisi sul “Renzismo”. Non sono un politologo, neanche amatoriale. Mi occupo di comunicazione. E la mia analisi parte da lì. Già in passato ho definito Renzi “l’americano”, per il linguaggio: emozionale, costruito sulle narrazioni, attento alle relazioni in Rete, tendente a inventare slogan e parole chiave con le quali “tagga” ogni suo intervento. Anche se la più nota e controversa di queste parole (“rottamazione”) andava dismessa prima, perché occorreva esaltare di più la pars construens del programma che è rimasta un po’ occultata dalla pars
Matteo Renzidestruens. Matteo Renzi perse le primarie del PD, com’è noto, ma le perse alla grande. Il suo “Concession Speech” (il riconoscimento immediato della vittoria di Bersani) infatti fu comunicativamente il suo momento più alto. Poi il vincitore Bersani pensò che le elezioni politiche fossero la prosecuzione della marcia trionfale delle primarie e non mutò nulla nel linguaggio, confondendo la comunicazione di un possibile premier con quella di un segretario di partito. Non si trattava più di parlare in casa e agli apparati, bensì fuori: agli elettori indecisi, a quelli che cercavano un lavoro, una risposta, un progetto e prima ancora una speranza. Nella memoria collettiva, degli interventi di Bersani resta un’improbabile metafora da tintoria (“Il giaguaro da smacchiare”) e la debolezza delle proposte sui temi caldi della tassazione eccessiva, del finanziamento pubblico ai partiti, del lavoro e del welfare spariti. E fu per la sinistra il disastro ossimorico che sappiamo: una vittoria che non vince! Furono contenti i soliti satirici sadici, primo fra tutti Marco Travaglio che poté scandire, orgasmicamente, la battuta: “L’impresa di perdere stavolta sembrava disperata, visti i pronostici, ma impegnandosi a fondo la sinistra c’è riuscita!”

Il linguaggio “excomunista” e quello “postdemocristiano”. Sulla comunicazione di Bersani ho già scritto. Il suo linguaggio e i suoi silenzi sono stati complicati dalle contraddizioni di una linea che cambiava di giorno in giorno: “Marini for President” per distendere il clima con il PDL, e il giorno dopo “Prodi for President”, stavolta per andare alla guerra con il PDL. E poi “no, assolutamente no alle larghe intese”, ma subito dopo “anche sì, con Letta”. Oggettivamente sarebbe occorsa una capacità comunicativa sovrumana per far accettare scelte e decisioni, forse necessitate, ma di complicata e difficile digestione. E la comunicazione di Bersani, notoriamente, di sovrumano e trascendente non ha nulla: sa di piadina e birra alla Festa dell’Unità. Allora è il momento di Renzi? No, per adesso è quello di Enrico Letta e della sua comunicazione misurata, rassicurante, sobria, analogica di tipo (post)democristiano con qualche nota digitale. E con il valore aggiunto d’un Ghostwriter davvero d’eccezione: il Presidente della Repubblica che Letta, con lapsus rivelatore, per due volte ha citato come Presidente del Consiglio.

Bignardi antipatica recidivante, Fazio imprevedibile cattivo. Allora Matteo dovrà pazientare, ma soprattutto qualcosa dovrà rivedere nella sua pur incisiva ed effervescente comunicazione. Perché essere troppo cool, eccita troppo: non solo i suoi detrattori, a destra e sinistra, ma anche noti mediatori del rapporto con il pubblico, soprattutto quello televisivo.

Negli ultimi quindici giorni Renzi è stato intervistato da tre giornalisti e/o conduttori di trasmissioni televisive: Lilli Grueber, Daria Bignardi e Fabio Fazio. L’atteggiamento dei tre denotava in maniera, meno evidente nel caso della Grueber, ma del tutto palese per gli altri due la loro insofferenza nei riguardi del “sindaco”. La Bignardi aveva rispolverato, per l’occasione e senza fatica, una somatica da grande antipatica con annessa sindrome da puzza sotto il naso. Fazio che in genere ama fare da spalla all’intervistato (non è una debolezza, è una sua precisa tattica) appariva palesemente stizzito e fermamente intenzionato a evitare che Renzi riscuotesse consensi e applausi, a cominciare da quelli in studio. E rompeva scientificamente i ritmi espositivi di Matteo, cercava di rubargli i tempi, anche sovrapponendo la voce, perché le sue battute, le frasi a effetto, le ironie perdessero di efficacia. Insomma tutta la comunicazione verbale, non verbale e paraverbale di Daria e Fabio mandava un messaggio forte e chiaro: “Io, questo Renzi non lo sopporto!”. Perché? Azzardo un’ipotesi, da sommarsi a una dose fisiologica di antipatia a pelle: non lo ritengono un campione che possa rappresentare degnamente la sinistra. Qualunque cosa voglia dire “sinistra” oggi, tra l’altro!

Un’etichetta per screditare Renzi. E poi ci sono gli “intellettuali”. Protervi o semplicemente alla ricerca della quotidiana cosa intelligente da dire, si sono silenziosamente trovati d’accordo, a destra e a sinistra, per confezionare una definizione demolitoria per Renzi. Una definizione che abbia, da un lato, un’apparenza di scientificità e nello stesso tempo possa essere percepita dall’uomo della strada come un giudizio ridicolizzante. E quella di essere un “cretino cognitivo” è sembrata l’etichetta perfetta da appiccicare a Renzi, così impara a voler cambiare lo status quo (che quando si comincia non si sa dove si va a finire e magari stravolge anche il meccanismo delle ospitate d’intellettuali e presunti tali in TV!).

Ma chi è il “cretino cognitivo”? È il prodotto del virus del cretinismo che contagia il cognitivismo, una scienza che essendo il frutto dell’incontro tra psicologia, neuroscienze, linguistica ecc. ha le maglie un po’ larghe ed è attaccabile dai virus. Il cretino cognitivo è un insicuro che si difende con la barriera del linguaggio, ostenta conoscenze che non ha, sforna battute per mascherare le sue lacune, tende a stupire con le frasi a effetto i pubblici culturalmente meno attrezzati, parla di progetti ma latita sulle realizzazioni.

Insomma un “cretino cognitivo” è quello che più banalmente definiremmo “una persona brillante ma poco profonda, senza solide basi”. Detto così però non buca lo schermo, non si presta alle ambiguità interpretative che fanno ridere e alzano l’audience.

Il “cretino cognitivo”: una sindrome dilagante. Tra i primi, negli ambienti di destra, ad appiccicare l’etichetta a Renzi durante un talk show televisivo è stato Pietrangelo Buttafuoco. A sinistra la definizione già circola in salotti, pub, comunità analogiche e digitali. L’aspetto interessante è la convergenza tacita destra-sinistra: l’ascesa di Renzi disturba troppi potentati che il ricambio generazionale lo auspicano solo per gli altri e vogliono morire gestendo potere. Anzi pensano che, gestendo potere, non si muore. Allora ecco entrare in azione, e in maniera bipartisan, gli intellettuali.

In genere però la “gente” si comporta in modo diverso da come gli intellettuali prevedono o sperano. Però Matteo farà bene a rivedere –ripeto- qualche strategia del suo repertorio comunicativo, senza però violentarne l’essenza: lui è spontaneamente portato a una comunicazione emozionale, diretta e spettacolarizzata. Dovrà acquisire che non è quasi mai conveniente stravincere dialetticamente, può bastare vincere o anche impattare. Perfino perdere se serve e (solo) quando serve. Meno slogan e più autoironia aiutano a farsi capire, a farsi accettare, a costruire alleanze. Sul “cretino cognitivo” Matteo giustamente fa spallucce, perché proprio coloro che tentano di appiccicargli la colta etichetta, si stanno comportando con la prosopopea che caratterizza la sindrome del “Cretino Cognitivo”. Del resto si tratta, come puntualmente osservato nella prefazione dell’omonimo libro di Daniela Maddalena di una sindrome diffusissima, una sorta di esantema ritardato di tipo psicologico: “Ne siamo periodicamente tutti contaminati. Veniamo attaccati dopo i trent’anni, e non illudiamoci: se crediamo di non essere mai stati “cretino cognitivi” è solo perché non ce ne siamo mai accorti”.

SCRITTO DA Marco Stancati

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