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Business Intelligence: dove sta l’intelligenza?

Autore
Giuliano Razzicchia

Si parla di business intelligence (BI) dagli anni 60, periodo in cui un tecnico IBM tedesco estremamente innovativo e creativo di nome Luhn descrisse in una sua pubblicazione un sistema per permettere agli scienziati e agli ingegneri intenti nella ricostruzione postbellica di cooperare più velocemente, raccogliendo in maniera automatica le informazioni sulla letteratura scientifica disponibile. In particolare si trattava di uno strumento capace, a seguito di una indagine approfondita sulle necessita e sugli interessi di un utente, di recapitare all’utente stesso solamente la documentazione inerente alle scelte rilevate nell’indagine.

Sembrerebbe un antesignano di un motore di ricerca, o in termini più ampi dello stesso world wide web ma se guardiamo più in profondità la logica alla base del sistema SDI (selective dissemination of information) di Luhn possiamo vedere il germe di quello che si sarebbe sviluppato nei successivi 50 anni: il tema cruciale della gestione delle informazioni, con l’aggiunta di un ulteriore paramentro, ovvero la conoscenza dell’utente.

Proprio quella miscela esplosiva tra le grandezze “informazione” e “utente” che oggi potrebbe significare per una azienda il boost necessario a fare il grande salto.

Ma le parole di Luhn erano solo un sassolino rispetto alla montagna che sarebbe diventata la teoria alla base della business intelligence negli anni successivi. La quantità di dati che ogni giorno viene prodotta e immagazzinata nel mondo cresce ininterrottamente e richiede un approccio adeguato per poter essere sfruttata.

Se cerchiamo in rete o in libreria possiamo trovare decine di definizioni della BI, dal nome di pacchetti sw al sostegno per i processi decisionali, da uno strumento tecnologico per la ricerca di dati fino alla trasformazione di dati in conoscenza.

E’ preferibile però vedere questo elemento fondamentale per lo sviluppo di una azienda come un metodo, sapendo così che nella definizione sono inclusi aspetti di organizzazione, di strategia, di tecnologia e di intelligenza. Occorre infatti ricordare fin da subito che la business intelligence, a dispetto del nome, è assai poco intelligente se non correttamente indirizzata e interpretata (rigorosamente nell’ordine). Il rischio è di cadere in pericolose e fuorvianti interpretazioni della realtà come nella famosa “media del pollo” (due persone, una con due polli e una senza niente formano un campione dalla cui analisi di evince che hanno mangiato un pollo a testa) oppure nell’altrettanto famigerata leggenda del letto quale luogo più pericoloso al mondo (vi muore la maggior parte delle persone).

Alla fine potremmo essere sedotti da Cockpit e tableau de board molto intriganti o da possibilità di fare analisi multidimensionali a livelli che non ci saremmo mai immaginati, senza tuttavia trarne automaticamente i benefici attesi: il motivo per cui BI non è solo un argomento di pertinenza del settore IT, anzi lo è limitatamente al livello più basso di raccolta e organizzazione dati, è che l’obiettivo finale che si pone applicando il metodo BI è creare valore. Cruscotti & co hanno senso solo se riescono a produrre ipotesi di ottimizzazioni o efficientamento dei processi, riduzione dei costi, scoperte di nuove opportunità. In altre parole forniscono un ROI positivo, altrimenti sarebbero un puro aggravio dei costi aziendali. Per ottenere questo risultato è necessario che la BI non sia solo una forma di reportistica a supporto del marketing ma venga integrata nei processi decisionali con la possibilità di modificarli.

Nei prossimi articoli vedremo come questo sia possibile.

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SCRITTO DA Giuliano Razzicchia

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